ROMA (ITALPRESS) – L’estate in corso ha determinato l’inserimento nel nostro vocabolario del termine inglese overtourism. Episodi sempre più ricorrenti di sovraffollamento turistico nelle principali destinazioni italiane ed internazionali – da Venezia alla Cinque Terre, passando per il recente “caso” di Bologna sollevato da un articolo del New York Times – stanno mettendo a rischio gli equilibri sociali, culturali ed economici di queste località ed esacerbando le conseguenze negative del turismo: insofferenza delle comunità locali, perdita di residenti, chiusura di locali di servizio per le comunità, crescita di negozi turistici spesso di scarsa qualità e molto altro. Al di là delle sensazioni, i dati ufficiali dicono che l’Italia è «affetta» da disomogenea distribuzione dei flussi turistici, soprattutto internazionali. Nel 2023, il 48,1% degli arrivi turistici stranieri si è concentrato in sole sei province: Venezia (11,8%), Roma (10,2%), Bolzano (8,4%), Milano (6,9%), Firenze (5,6%), Verona (5,2%). E non si tratta certo di un fenomeno recente. Guardando sempre alla distribuzione dei flussi nelle prime sei province italiane per numero di arrivi, il livello di concentrazione degli stranieri era pari al 53% nel 2008 e al 51% nel 2013. Ciò significa che dal 2008 a oggi, in presenza di una crescita complessiva di ingressi internazionali, i turisti si stanno “spalmando” su più regioni anno dopo anno, così come su più mesi. Ed è sicuramente una buona notizia, perché contribuisce al contenimento del picco agostano legato al turismo interno – +4% di presenze turistiche in dieci anni (2013-2023) – e si sposa con l’allungamento della stagionalità del turismo, con un aumento più accentuato dei flussi negli altri mesi dell’anno: ciò vale in particolare per i mesi di aprile (+51% delle presenze) e di ottobre (+35%).
Le problematiche innescate dall’overtourism, del resto, non possono e non devono trasformarsi in un movimento anti-turistico, perché così non si terrebbe conto dei benefici apportati non soltanto all’economia turistica al sistema Italia (vale il 13% del Pil), ma anche di tutti gli aspetti socio-culturali: il turismo contribuisce infatti a plasmare la cultura globale, favorendo l’incontro ed il dialogo fra differenti culture e la creazione di relazioni e, attraverso la visita, a combattere stereotipi e pregiudizi, può preservare risorse, usi e tradizioni, limitare lo spopolamento di aree periferiche a favore delle città. La vera sfida è rappresentata dal “governare” questi flussi, contenendo l’overtourism, ed è una sfida sicuramente complessa perché le azioni ad hoc per mitigare gli effetti negativi ci permetterebbero soltanto di arginare il problema. È invece necessario pensare ad interventi di sistema che vadano a modificare l’attuale governance del turismo, con l’obiettivo di ridurre le distanze tra aree ed esperienze da alto afflusso a minore afflusso per muovere i flussi turistici verso quest’ultime, creando valore economico, sociale e culturale. Affinché questo avvenga, qui tre primi step.
La prima è quella di definire un modello di gestione del turismo. Oggi la situazione in Italia è frammentaria e disomogenea, con numerose best practice che potrebbero diventare esempio e modello per aree in cui invece paiono necessari interventi di innovazione. Un passaggio importante dovrebbe essere l’istituzione di un albo dei destination manager, che dovrebbero superare un esame di abilitazione. L’esame è un passaggio necessario per chi va a dirigere un’agenzia di viaggi o per chi intende fare la guida turistica, ma non per chi ha in mano le scelte che incidono sul benessere della comunità locale, sullo sviluppo del settore oltre che la gestione di fondi pubblici. Da un’analisi sulle DMO (Destination Management Organizations) italiane effettuata nel corso della mia esperienza come amministratore delegato dell’Agenzia Nazionale del Turismo-Enit emergeva che soltanto il 55% dei direttori aveva un background di provenienza legato al turismo (pubblico o privato).
La seconda azione è l’istituzione di un centro studi nazionale con il compito di analizzare il fenomeno in profondità, mappando gli indicatori e determinando la capacità di carico delle diverse destinazioni, raccogliendo e diffondendo le migliori pratiche e proponendo soluzioni concrete ai decisori politici, diventando così un luogo di raccordo con i territori.
La terza azione di svolta prevede la valorizzazione del turismo rurale e di tutta l’enogastronomia, che è fra i driver capaci potenzialmente di consentire questo cambiamento, visto che può riequilibrare i flussi tra città e campagna ed aree interne. Come? In primis, realizzando un piano strategico nazionale capace di mettere il patrimonio enogastronomico nazionale ed i suoi asset nelle condizioni di poter creare valore duraturo per il comparto turistico italiano. Secondo l’indagine congiunta OIV-UN Tourism, 21 Paesi su 48 consultati hanno un piano strategico nazionale per l’enoturismo, e l’Italia non figura tra questi (a differenza di diretti competitor come la Spagna). E poi, lo sviluppo del turismo delle aree interne richiede la proposta di un modello innovativo, perché qui non si può replicare quanto è efficace per Roma o Milano. Un esempio su tutti sono i trasporti: molto focus è stato dato sul tema taxi nei capoluoghi, ma come possiamo efficacemente portare i turisti all’interno del Molise o della Basilicata? Infine, la promozione e l’informazione vanno reimpostate: infatti è sempre più forte l’interesse dei turisti nello scoprire destinazioni minori e poco conosciute, basti pensare che il 93% degli italiani vorrebbe fare un viaggio alla scoperta dei piccoli borghi dell’entroterra italiano, principalmente poiché li considera luoghi di grande fascino e cultura, ma solo il 58% ne ha compiuto almeno uno nell’ultimo anno. E l’esistenza di un desiderio diffuso si può concretizzare soltanto se sussistono specifiche condizioni, in primis l’accessibilità con i mezzi pubblici e l’informazione che sono i principali punti carenti per chi vi ha svolto un viaggio.
-foto Agenzia Fotogramma –
(ITALPRESS).
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